Tutti gli articoli di Letizia Mannino

Mancanza figura paterna e aggressività

Il quotidiano “La Stampa” – TuttoScienze del 18 dicembre riporta alcuni studi/esperimenti dai quali  emerge il ruolo del padre nell’educazione. Una prima ricerca su “Cerebral Cortex” suggerisce l’importanza dei padri nell’accudimento dei figli per prevenire problemi emotivo relazionali.

La ricerca è stata condotta sui topi “ma i risultati – sostiene Gabriella Gobbi del McGill University Health Centre – sono rilevanti anche per gli umani. Le parti del cervello emotivo, come amigdala e ippocampo, hanno network simili e anche le emozioni di base sono regolate in modo simile. E in effetti i deficit comportamentali che abbiamo osservato sono coerenti con gli studi condotti sui bambini: l’assenza paterna è associata a un rischio maggiore di comportamenti devianti”.

“La ricerca – precisa la neuroscienziata – è il primo tentativo di capire come il rapporto con il padre incida sullo sviluppo neurobiologico e comportamentale della prole: non possiamo trarre conclusioni definitive, anche perché i bambini spesso trovano un’altra figura di riferimento, ma la società deve interrogarsi sul ruolo dei padri nello sviluppo dei figli”. Fonte “La Stampa” del 18/12/2013

L’articolo riporta, sempre sulla relazione padri figli, anche uno studio dell’Università di Oxford. In questo caso sono state reclutate 192 famiglie nei reparti di maternità e successivamente sono state osservate, a casa, le dinamiche relazionali; anche questa ricerca ha messo in evidenza che se il padre dedica scarsa attenzione ai bambini questi manifestano più aggressività.

Inoltre secondo l’American Academy of Pediatrics i bambini ottengono migliori risultati a scuola quando i papà sono premurosi con loro.

Fonte: La Stampa del 18/12/2013

Scritto da: Letizia Mannino

Con il tempo… si avverte meno la stanchezza

Uno studio promosso dalla London School of Economics and Political Science ha indagato il livello di stanchezza di tredicimila americani tra i 15 e gli 85 anni e ha evidenziato che, contrariamente a quanto ci potrebbe aspettare, coloro che si sentono più affaticati sono i ragazzi tra i 15 e i 25 anni.

La ricerca ha rilevato anche che le donne si sentono mediamente più affaticate degli uomini e che ogni figlio in più incrementa il senso di stanchezza; inoltre ha messo in evidenza che le persone con un maggiore livello culturale si sentono meno affaticate. Fonte: Corriere della Sera del 13/12/2013

http://www.corriere.it/salute/pediatria/13_dicembre_13/ecco-generazione-nati-stanchi-giovanissimi-sono-piu-spossati-6ee7ef56-6406-11e3-aa0f-2ef156041c19.shtml

Gli autori della ricerca, Laura Kudrna e Paul Dolan, formulano delle possibili spiegazioni in merito alla maggiore percezione di stanchezza fra i giovani piuttosto che fra gli over 70:

“Secondo Kudrna nella terza età la fatica percepita potrebbe essere inferiore perché si ha la possibilità di gestire meglio il proprio tempo e gli anziani possono permettersi di “fare quello che vogliono fare quando vogliono farlo”, ma non è da escludere che possano entrare in gioco anche altri fenomeni. Alcuni studi hanno ad esempio svelato che le emozioni negative tendono a ridursi con l’invecchiamento e che gli anziani sono più propensi a giudicare positivamente la loro quotidianità rispetto ai giovani. Il risultato resta sempre lo stesso: contrariamente ai luoghi comuni, non è la terza età il periodo della vita in cui la stanchezza prende il sopravvento”. Fonte: Il Sole 24 ore del 16 dicembre 2013

http://www.salute24.ilsole24ore.com/articles/16244-gap-generazionali-br-i-giovani-sono-piu-br-stanchi-degli-anziani

Come mai i giovani si sentono stanchi? Giustamente gli articoli citati mettono in evidenza che il concetto di fatica è soggettivo. Ma come può influire sull’atteggiamento con cui si affronta la vita questa percezione soggettiva di stanchezza?

Scritto da: Letizia Mannino

Donne e uomini: cervelli diversi

Immagine tratta da “Il Messaggero” del 4/12/2013

Uno studio della University of Pennsylvania condotto su 949 individui (tra uomini e donne) ha dimostrato che il cervello nei due sessi funziona in modo diverso. Negli uomini le connessioni corrono dalla fronte alla nuca lungo lo stesso emisfero mentre nelle donne le connessioni vanno da un emisfero all’altro (vedi figura tratta da “Il Messaggero”).

Questi diversi percorsi dei neuroni permetterebbero di spiegare le diverse attitudini che tendono a  caratterizzare i due sessi: per gli uomini una maggiore capacità di percepire lo spazio e coordinare al suo interno i movimenti del corpo e per le donne maggiori capacità intuitive, empatia e di fare multitasking.

Differenze che cominciano a emergere intorno ai 13-14 anni e si approfondiscono durante l’adolescenza. Lo studio è stato condotto grazie alla “connettomica”, una tecnica speciale di risonanza magnetica che permette di visualizzare l’intero cervello e il percorso seguito dagli impulsi elettrici.

La Coordinatrice dello studio Ragini Verma, che insegna radiologia all’Università della Pennsylvania commenta:” Oltre alle differenze, ciò che colpisce è la complementarietà fra doti femminili e maschili”.

Fonte: “La Repubblica”  e “Il Messaggero” del 4 dicembre 2013

Riconoscere le differenze può essere utile, oltre che per ottimizzare meglio i propri punti di forza, per comunicare meglio con l’altro sesso. Le incomprensioni nel rapporto di coppia, infatti, possono anche nascere dalla difficoltà a riconoscere, nel modo diverso in cui uomini e donne affrontano alcuni problemi, quanto pesano proprio le diverse attitudini e quanto invece l’attenzione e l’amore del partner. Talvolta anche alcuni aspetti di gestione organizzativa familiare, per fare un esempio, possono diventare motivo di tensione nella coppia perché gli uomini tendono ad affrontarli prevalentemente in modo pragmatico e le donne, invece, vorrebbero magari discuterne, confrontarsi.  Questa differenza potrebbe essere vissuta da ciascuno, sempre solo per fare un esempio,  come un atteggiamento di scarsa attenzione e mancanza di rispetto.

Punti di forza nei due sessi  (fonte: “La Repubblica del 4 dicembre 2013)

Uomini Donne
  • percezione dello spazio
  • coordinamento delle azioni
  • abilità motorie e spaziali
  • capacità di eccellere in uno sport
  • velocità nel processare le informazioni
  • intuito
  • capacità di analisi
  • intelligenza sociale
  • capacità di svolgere più compiti simultaneamente
  • migliore capacità di attenzione
Scritto da: Letizia Mannino

La scelta del partner

Secondo uno studio pubblicato su Science le coppie di sposi avrebbero già degli indicatori, anche se spesso non ne sono consapevoli, per capire se il loro matrimonio sarà felice.

Lo studio condotto dall’équipe di Matthew J. Shaffer ha seguito per 4 anni 135 coppie del Tennesse (Stati Uniti) che si erano appena sposate. E’ stato chiesto loro di valutare nel tempo la qualità del loro rapporto che poteva andare da 1 (molto infelice) a dieci (molto felice). Lo studio ha messo in evidenza che il livello consapevole di valutazione era meno attendibile di quello inconsapevole. Per valutare quest’ultimo hanno mostrato alle coppie della ricerca la foto del partner, per un breve tempo, e successivamente la persona intervistata doveva dire dire se una parola, per esempio “delizioso” o “disgustoso” era positiva o negativa.

Secondo i ricercatori i tempi di reazione nella classificazione delle parole erano indicativi della disposizione inconsapevole/automatica verso il partner. Dallo studio è emerso che i coniugi che inizialmente a livello automatico erano più scontenti si sono rivelati successivamente meno soddisfatti del rapporto. Quindi il lavoro dei ricercatori sembra dimostrare che le capacità predittive dell’atteggiamento automatico sembrano essere un po’ più affidabili di quelle consapevoli; anche se spesso non vengono tenute in adeguata considerazione.

Fonte: Internazionale 6/12 dicembre 2013

Effettivamente talvolta le coppie già dal momento del matrimonio (o della convivenza) hanno dei dubbi o non sono pienamente convinte del passo che stanno compiendo. Indubbiamente gli stati emotivi che caratterizzano un rapporto affettivo possono essere complessi e ambivalenti. Ma non sarebbe importante che almeno all’inizio del rapporto ci fosse un’adeguata convinzione e fiducia?

Scritto da: Letizia Mannino

La paura della solitudine

 

Una ricerca condotta dall’Università di Toronto  e pubblicata sul Journal of personality and social psychology  mostra che la paura di restare soli rischia di far nascere amori sbagliati.

Secondo Stephanie Spiellmann che ha diretto lo studio “Le persone con una forte paura di restare single sono più portate a fare scelte sbagliate nelle relazioni di coppia, scelgono il partner non adatto e restano infelici. L’ansia svolge un ruolo chiave nelle future relazioni ad alto rischio di instabilità perché decise sulla scia delle proprie paure. La paura delle solitudione è una esperienza dolorosa sia per gli uomini che per le donne, infelici allo stesso modo”.

http://salute.ilmessaggero.it/la_coppia/notizie/amore_ansia_single_sbaglio_ricerca_uomini_donne/388831.shtml

Entrambi, uomini e donne, sembrano avere ugualmente paura della solitudine (che in effetti è un tema esistenziale) mentre sembrano differire circa alcune delle motivazioni. Le donne, per esempio, sembrano preoccuparsi maggiormente di cosa pensano gli altri, di come le giudicheranno se restano sole a lungo.

Fonte: Il Messaggero del 5 dicembre 2013

Altre differenze nel modo di avvertire emotivamente la solitudine, presumibilmente, sono dovute ad aspetti di personalità piuttosto che di genere.  E’ importante quindi evitare di farsi guidare da queste paure nella scelta del partner perché potrebbero portare a sottovalutare difficoltà e differenze che sono evidenti , invece, fin dall’inizio di una relazione; infatti, se in un rapporto non si sta bene con l’altro si corre il rischio di sentirsi comunque “soli”… ma nella coppia.  Quindi troppa paura della solitudine può portare… alla solitudine.

Se una persona comprende meglio il significato che la paura di restare da soli riveste nel suo modo specifico di essere può riuscire a viverla con un minore senso di sofferenza; inoltre con una minore ansia potrebbe diventare più facile concedersi la possibilità e il tempo per trovare un/una compagno/a con il quale sentire un’adeguata sintonia emotiva.

Vignetta da G.Gullotta, Commedie e drammi nel matrimonio

Scritto da: Letizia Mannino

L’incerta direzione del futuro

Scritto da: Letizia Mannino

Idee utili che non si diffondono

Come mai alcune novità si diffondono velocemente mentre altre molto lentamente? Atul Gawande, chirurgo statunitense, in un articolo pubblicato sul settimanale “Internazionale” ricostruisce la diffusione di due scoperte dell’800 molto diverse ma fondamentali per la medicina come l’anestesia e gli antisettici. L’anestesia si è diffusa molto rapidamente mentre le scoperte relative agli antisettici faticarono a diffondersi nonostante gli effetti positivi nel ridurre i casi di setticemia e di morte.

Un fattore che viene individuato per spiegare la lentezza della diffusione di queste scoperte è la resistenza alla diffusione di idee in controtendenza che però Gawande non trova sufficiente a spiegare il diverso destino delle idee citate. Infatti entrambe erano in controtendenza ma hanno avuto un decorso molto diverso.

“Allora quali erano le differenze? in primo luogo, un metodo combatteva un problema immediato e visibile (il dolore), mentre l’altro combatteva un problema invisibile (i germi) i cui effetti si sarebbero manifestati solo molto tempo dopo l’operazione. In secondo luogo, sebbene entrambi migliorassero la vita dei pazienti, solo uno migliorava quella dei dottori.

L’anestesia aveva trasformato la chirurgia da una frettolosa e brutale aggressione a un paziente urlante, in una procedura tranquilla e ponderata. Il listerismo, al contrario, imponeva al chirurgo di lavorare in una nebbia di acido fenico, che anche alle concentrazioni più basse gli bruciava le mani. Quindi si capisce perché la crociata di Lister non ebbe molto successo”.

Situazione analoga si è verificata nel caso di molte scoperte importanti.  “Risolvevano problemi gravi ma invisibili agli occhi di molti, e applicarle era noioso, se non addirittura doloroso…”.

 Fonte: Internazionale 22-28 novembre 2013

Un altro esempio attuale riguarda la difficoltà a diffondere alcune conoscenze che potrebbero limitare le morti per parto; ogni anno 300mila donne e più di sei milioni di bambini muoiono al momento del parto, soprattutto nei paesi più poveri. Per prevenire alcuni casi di mortalità infantile sarebbero disponibili delle soluzioni già da tempo ma non si sono diffuse.  Gawande scrive: “ Siamo all’inizio del ventunesimo secolo e stiamo ancora cercando di capire come far attecchire delle idee che risalgono all’inizio del ventesimo”.

Una di queste è la cura del canguro che consiste nel mettere il neonato a contatto diretto con il corpo della madre in modo da prevenire i casi di ipotermia (ancora diffusi in contesti dove gli ospedali non hanno il riscaldamento come ad esempio alcune zone dell’India ma non solo).

L’ipotermia è molto comune e rende i neonati deboli, meno reattivi, meno capaci di poppare e più soggetti alle infezioni.  Scrive Gawande:  “Tra i bambini nati sottopeso o prematuri, la cura del canguro (come viene chiamata) riduce la mortalità di un terzo”.

E il problema non riguarda solo i paesi poveri ma anche i paesi ad alto reddito. Ad esempio negli Stati Uniti pare che la metà dei bambini che arrivano in rianimazione sono ipotermici.

Come fare a diffondere queste idee? Secondo Gawenda diverse esperienze hanno dimostrato che in questi casi non sono di aiuto le nuove tecnologie di comunicazione, internet, facebook ecc, ma l’unico modo per apportare dei cambiamenti e fare capire l’importanza di certe idee è andare sul luogo e parlare con le persone.

Interessante quanto mette in evidenza Gawande. Infatti la prevenzione in tutti i campi richiederebbe proprio la capacità di vedere anticipatamente ciò che può essere dannoso al fine appunto di evitare che possa avere conseguenze negative. Come fare se così frequentemente viene data importanza solo a ciò che dà un vantaggio o un risultato immediato?  Stile di comportamento  che può avere effetti negativi su tutti gli ambiti; come altri esempi Gawande cita il riscaldamento globale, la crisi economica ecc.

Purtroppo anche i processi educativi rischiano di risentire di questa difficoltà a guardare in prospettiva. Infatti l’educazione è un processo nel tempo i cui risultati, positivi o negativi, non sempre si vedono subito.

Scritto da: Letizia Mannino

Manca la dimensione del futuro

Giuseppe De Rita, presidente del Censis (Istituto di ricerca socio-economica), in un’intervista pubblicata su “Il Messaggero” del 28 novembre sostiene che il calo della natalità nasce dal fatto che gli italiani non sono più interessati al futuro ma vivono solo nel presente.

Alla domanda circa i motivi per cui il futuro è stato eliminato dall’orizzonte degli italiani risponde:

«Quaranta anni di fiction, di un sistema di media, di comunicazione di massa tutta basata sul presente, con innamoramenti improvvisi su certi temi, che poi dopo dieci giorni scompaiono.
C’è uno straniamento delle persone rispetto ai pericoli della vita. Si dice: mi adatto al presente, non rischio di scommettere sul futuro. E’ la natura dell’uomo. Si vive in quello che io ho chiamato “presentismo”: il passato non ci interessa perché è stato il presente di altri, e il futuro neanche perché sarà il presente di altri come diceva un filosofo, mi pare Manlio Sgalambro. E’ una questione antropologica, profonda»

Per De Rita è vero che c’è la crisi, la mancanza di lavoro, ma questi problemi non spiegano la ragione di fondo: i figli si fanno dove c’è fiducia nel futuro.

Alla domanda circa le ragioni di questa situazione, se devono essere attribuiti ai politici come pensano molti italiani, De Rita risponde:

“I politici italiani sono spaesati, cercano di rincorrere il presente.  Ma tutto nasce da lontano, dalla nostra Società”

Dopo alcuni interrogativi sull’argomento, l’intervista si conclude con la domanda se gli italiani dovrebbero fare un esame di coscienza:

“Sì, le cose maturano nelle famiglie, inutile dare la colpa ad altri”.

Fonte: il Messagero del 28 novembre 2013

http://www.censis.it/20?shadow_editoriale=120958

Scritto da: Letizia Mannino

Troppa tv fa ingrassare

Secondo uno studio della Harvard School of Public Health di Boston pubblicato sulla rivista Pediatrics stare davati all Tv si traduce in un aumento della massa corporea. Lo studio ha preso in esame circa 8.000 ragazzi di entrambi i sessi e di età compresa tra i 9 e i 16 anni e ha messo in evidenza che per ogni ora passata in più davanti a uno schermo l’indici di massa corporea cresce di 0,1 punti. Lo studio, oltre alla televisione, ha preso in considerazione anche  il tempo passato a vedere Dvd, davanti al computer o a giocare a un videogiochi.

Della ricerca ne parla “La Repubblica” del 25 novembre dove si legge:

“La televisione induce dei cambiamenti non salutari nei ragazzi – scrivono gli autori – è molto importante che i genitori siano consci di tutti i potenziali schermi che possono indurre l’obesità nei figli, dalla tv ai videogiochi”. Un problema che secondo gli esperti è spesso sottovalutato dalle famiglie.”Molti genitori sono convinti che i figli non si lascino andare davanti alla tv, ma se si controllano i dati, si capisce che la maggior parte di giovani sta davanti allo schermo una media di due ore di più al giorno”, spiega Mark Tremblay fra gli autori dello studio e direttore del Healthy Active Living and Obesity Research at the Children’s Hospital of Eastern Ontario Research Institute di Ottawa, in Canada -. Basta fermarsi una mezz’ora in più a guardare un programma e magari impigrirsi un’altra volta per un’altra mezz’ora, per accumulare tanto tempo, senza rendersene conto”.

Fonte: ‘La Repubblica’ del 25 novembre 2013

http://www.repubblica.it/salute/forma-e-bellezza/2013/11/25/news/ragazzi_per_ogni_ora_davanti_a_tv_2_chili_in_pi_di_peso-71900190/

Ancora uno studio che mette in evidenza la relazione fra stili di vita e aumento di peso. Infatti non fa ingrassare il fatto in sé di stare davanti alla tv ma che questo spesso si associa a mangiare e senza avere un adeguata consapevolezza delle quantità; inoltre se si passa molto tempo davanti a uno schermo questo comporta minor tempo dedicato alla attività fisica o al movimento in genere.

Sull’argomento vedi anche: http://www.attraversolafamiglia.it/?p=553

Scritto da: Letizia Mannino

Uno studio sugli effetti del perdono

Una ricerca condotta da un team dell’Università di Pisa e pubblicata sulla rivista “Frontiers in Human Neuroscience” dimostra che perdonare comporta, per chi perdona, stati emotivi positivi e mette in moto complessi circuiti cerebrali.

Per comprendere gli effetti del perdono i neuroscenziati hanno chiesto a dei volontari di immaginarsi delle situazioni di sofferenza  provocate da altri. Una volta immedesimati nella scena solo alcuni soggetti sono stati sollecitati a perdonare. Nel primo caso per favorire il processo del perdono venivano invitati a considerare che la persona che gli aveva fatto il torto poteva trovarsi in una situazione di difficoltà personale, che poteva pagare anche lui le conseguenze dell’azione compita, insomma venivano messi in evidenza circo stanze che in qualche modo permettevano di riconsiderare gli eventi in maniera meno negativa. Nel caso invece di coloro che non venivano invitati a perdonare si enfatizzavano i motivi di risentimento.  Lo studio condotto sotto il controllo della risonanza magnetica funzionale ha mostrato come i soggetti che riuscivano a provare il perdono esprimevano un maggiore sollievo a livello soggettivo (misurato con apposite scale); correlate con il dato psicologico l’attivazione di specifiche aree cerebrali in particolare il precuneo, le regioni parietali inferiori destre e la corteccia prefrontale dorso laterale.

Nell’Avvenire del 23 novembre, che ha citato lo studio, si legge:

“Si tratta di quelle zone che sono note per essere coinvolte nella teoria della mente, nell’empatia e nella regolazione cognitiva degli aspetti emozionali. «Si può probabilmente dire che il perdono attraverso una rielaborazione razionale del pensiero negativo e una rivalutazione-riconsiderazione del proprio vissuto passi attraverso il mettersi nei panni dell’altro, nell’assumere la sua prospettiva, nel capire che il traditore o l’aggressore sono esseri umani come noi», spiega Pietrini. In questo modo, si dà del perdonare una descrizione anche da un punto di vista biologico, come meccanismo che ripristina la naturale omeostasi, facendo superare il blocco emotivo e lo stato disfunzionale tipici della ruminazione continua sull’episodio doloroso. Pur con le ineliminabili limitazioni di uno studio di laboratorio, e senza la pretesa di spiegare tutte le componenti di un processo così complesso, la ricerca apre la strada a una feconda contaminazione tra livelli di analisi, che potrà avere ricadute positive a livello sociale”

Fonte: http://www.avvenire.it/ScienzaeTecnologia/Pagine/perdono-fa-bene-cervello-segnala.aspx

Sempre sull’argomento si legge su Adnkronos Salute

La corteccia prefrontale dorsolaterale – spiegano gli studiosi – è coinvolta nella modulazione dei vissuti emotivi mediante processi di ristrutturazione cognitiva. Come percepiamo un evento e le sue conseguenze influenza il nostro vissuto emotivo. Un licenziamento, ad esempio, può essere vissuto come un fallimento, come un atto di ingiustizia o come un’opportunità di cambiamento. L’attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale suggerisce che la rivisitazione in termini positivi delle conseguenze associate a un evento negativo sia uno dei processi cruciali che vengono messi in atto nel perdonare un aggressore”

Fonte: http://www.adnkronos.com/Salute/Medicina/?id=3.2.899539001

Quindi non è importante solo ciò che accade ma il modo in cui viene dato significato a quanto accade. La capacità di vedere gli eventi da più punti di vista aiuta a prendere in considerazione le diverse componenti coinvolte. Quindi la difficoltà a perdonare potrebbe non essere dovuta solo alla gravità del torto subito ma anche al modo in cui la persona attribuisce significato al torto.

Il discorso del perdono risulta, inoltre, particolarmente importante per la coppia e la famiglia perché tutto ciò che rimane irrisolto può portare a recriminazione e risentimenti che non aiutano la comunicazione e la relazione.

Scritto da: Letizia Mannino