Tutti gli articoli di Letizia Mannino

Le emozioni vanno insegnate?

Un articolo dal titolo “La scuola delle emozioni” pubblicato sul quotidiano “La Repubblica” del 20 gennaio parla dei consensi che sta riscuotendo in America l’idea di Daniel Goleman di mettere l’intelligenza emotiva al centro della didattica nelle scuole.

Marc Brackett dell’Università di Yale si è espresso in questo modo a un Convegno: “Dopo anni di ricerche ed esperimenti non ci sono più dubbi: sappiamo che le emozioni possono migliorare o ostacolare le capacità di apprendimento”.

Per molto tempo l’idea generale è stata che queste capacità si sviluppano naturalmente con il tempo, con l’esperienza.

“Sono percezioni naturali mi ripete ancora qualcuno, i bimbi le apprendono guardandosi attorno in famiglia – prosegue Brakett che aggiunge – non basta urlare calmati per ottenere l’effetto sperato, bisogna spiegargli come fare a riprendere il controllo: va riconosciuto il problema, affrontato, risolto”.

Secondo molti esperti i benefici sono assicurati non solo nella carriera di studenti ma anche nel lavoro e non solo; ad esempio secondo uno studio dell’Università della Virginia l’educazione emotiva è la chiave per avere successo nella vita e nel lavoro, nelle relazioni affettive e ne beneficia anche la salute.

Ma non tutti sembrano d’accordo.La scrittrice Elisabeth Weil sul New Republic scrive: “Vogliono uniformare i nostri figli. Io difendo il diritto di essere esuberanti, originali, anticonformisti anche a costo di farsi male. Già le nostre scuole non brillano per fantasia: adesso andiamo incontro al rischio di un’ortodossia emotiva”. Anche Diane Ravitch, studiosa delle scuole americane è dello stesso parere “Il guaio del nostro sistema educativo è che non abitua alla libertà di pensiero, altro che controllare le emozioni: andrebbero scatenate”.

Fonte “La Repubblica” del 20 gennaio 2014

In effetti dietro un disagio di tipo emotivo, spesso, c’è una difficoltà a riconoscere e modulare le emozioni e/o comprendere quelle degli altri. Non a caso nel corso di una psicoterapia frequentemente si lavora proprio su questi aspetti.

Infatti, le emozioni, che le si riconosca o meno, si provano e questo potrebbe far pensare che non c’è nulla da apprendere; che sono un’esperienza come respirare, si sa come si fa!

Invece può accadere che la persona provi un’emozione senza riuscire a identificarla adeguatamente; un caso, solo per fare un esempio, potrebbe essere quello di un partner che non riconoscendo la gelosia che prova attribuisca i propri stati d’animo di ansia a un presunto tradimento dell’altro.

Quindi forse la questione non è tanto se è opportuno o meno un insegnamento delle emozioni ma favorire lo sviluppo della capacità di riconoscere e modulare quelle che si provano; nel fare questo andrebbe sempre salvaguardata la specificità di ciascun individuo e non si dovrebbe far passare l’idea che c’è un modo “giusto” e unico di provare le emozioni.

 

Scritto da: Letizia Mannino

Ora… della nanna

Tutti sanno che la regolarità nel sonno è fondamentale. Due studi dimostrano quanto sia importante per il benessere dei bambini nelle diverse fasi dello sviluppo.

Un primo studio condotto da un gruppo di pediatri dell’University College di Londra e pubblicato su Pediatrics dimostrerebbe che c’è una correlazione fra l’irregolarità nel momento della nanna e problemi comportamentali come iperattività, problemi di condotta o con i coetanei, difficoltà affettive. Questi disturbi diventerebbero via via più negativi con il passare del tempo; ma se il sonno si regolarizza migliora anche il comportamento, quindi possono essere reversibili

Yvonne Kelly, che ha coordinato lo studio, osserva che poiché lo sviluppo cerebrale nei primi anni di vita ha evidenti ripercussioni sul benessere a lungo termine è essenziale far sì che possa procedere nel migliore dei modi abituando i bambini fin da piccolissimi alla regolarità.

Un altro studio mette l’attenzione specificamente sull’orario in cui andare a dormire. La ricerca condotta dall’Università del Colorado e pubblicata su Mind, Brain and Education  ha studiato in alcuni bambini il rapporto tra il livello di melatonina e la modalità e i tempi di addormentamento.

La coordinatrice dello studio Monique Le Bourgeois  spiega che:

I dati dimostrano che bisognerebbe cercare di essere ‘in sincrono’ con l’orologio biologico del bimbo, per far sì che possa addormentarsi velocemente e senza difficoltà riducendo il rischio di disturbi del sonno. Se i genitori infatti mettono a letto il bambino quando la produzione di melatonina non è ancora aumentata a sufficienza è probabile che il piccolo non riesca ad addormentarsi presto e bene: un bimbo su quattro ha problemi al momento della nanna, in molti casi potrebbe essere ‘colpa’ dell’orario sbagliato in cui si va a letto (…)”.

Per i bambini valutati dallo studio americano, per esempio, la sintesi dell’ormone (melatonina) si attestava intorno alle 20 e circa un’ora dopo i bambini riuscivano ad addormentarsi più facilmente.

Per facilitare la produzione di melatonina, prosegue la coordinatrice, può essere utile la sera ridurre l’esposizione alle luci artificiali di televisione e computer.

Fonte: Corriere della Sera del 15 gennaio 2014  – Leggi l’articolo

Gli studi citati mettono in evidenza l’importanza delle regole per la crescita serena ed equilibrata dei bambini; ma le regole per essere efficaci devono tenere conto delle caratteristiche del bambino ed essere adeguatamente in sintonia con i suoi ritmi fisiologici ed emotivi.

Scritto da: Letizia Mannino

Tipologie familiari

Andamento del numero delle famiglie per tipologia.  Anni 2004-2012

Fonte: http://www.italialavoro.it/wps/wcm/connect/c02621004278b7978a13aaadd36b4006/Famiglie%2Be%2Blavoro_2.0_v1.pdf?MOD=AJPERES

I dati del grafico del Rapporto annuale 2013 “Famiglie e Lavoro”curato da Italia Lavoro mostrano come sta cambiando la famiglia negli anni.

Tipologia familiare

Anno 2004

Anno 2012

Persone sole 5.681.596 7.962.544
Monogenitoriale 1.733.896 2.037.630
Coppia senza figli 4.806.422 5.342.973
Coppia con figli 9.495.249 9.365.722
Altro 642.727 627.331

Fonte dati: Rapporto annuale 2013 “ Famiglie e lavoro” curato da Italia Lavoro 2013

Scritto da: Letizia Mannino

I bambini perdono creatività

I bambini stanno perdendo la creatività perché troppo impegnati in attività organizzate, strutturate e supervisionate dagli adulti e sempre meno  possono giocare tra loro come si faceva una volta. I bambini sono troppo protetti perché i genitori sono sempre più ansiosi e hanno paura di lasciarli giocare con un po’ di autonomia.

Queste sono alcuni dei motivi che per lo psicologo Peter Gray (del Boston College), in un’intervista all’Ansa, possono spiegare la perdita di creatività che pare si registri oramai da decenni.

Sull’argomento Gray cita i dati di un recente studio pubblicato sul Creativity Research Journal da Kyung Hee Kim del College of William and Mary in Virginia che ha analizzato  i punteggi totalizzati in una serie di test per la misura della creatività (Test di Torrance sul pensiero creativo) ottenuti da bambini nati in diversi anni e prendendo in considerazione lunghi periodi e ha messo in evidenza come nelle ultime 2-3 decadi si osservi un costante declino della creatività. Una prima e notevole diminuzione si registra fa il 1984 e il 1990 e da allora il trend negativo continua.  (vedi anche http://www.attraversolafamiglia.it/?p=709)

“Stiamo privando sempre più i bambini dell’opportunità di inventarsi da soli i propri giochi e avventure”, sottolinea lo psicologo. Basti pensare anche solo alle feste di compleanno: oggi è popolare l’uso degli animatori che intrattengono gli amichetti del festeggiato e gli organizzano i giochi. Ma questo non sarebbe necessario perché i bambini sono capaci di divertirsi da soli se lasciati liberi di farlo”.

Fonte Ansa (14 gennaio 2014) – Leggi l’articolo

Scritto da: Letizia Mannino

Famiglia: ci vuole meno IO e più NOI

“Da cent’anni pensiamo solo all’Io: è un gravissimo errore. Dobbiamo cambiare rotta e capire che per essere felici dobbiamo mettere al centro il Noi. La famiglia oggi è scomparsa; non è più una piccola orchestra ma un luogo dove ognuno suona il suo strumento, una somma di Io separati. Non funziona. Pensavamo che il problema dell’educazione si risolvesse aumentando il numero degli asili. E invece è ancora sulla funzione dei genitori che bisogna puntare”. (fonte: Io Donna dell’11 gennaio 2014)

Queste sono le parole del noto psichiatra Vittorino Andreoli pubblicate dal settimanale “IO DONNA” in occasione dell’uscita del suo ultimo libro.

Il settimanale pubblica anche un decalogo in 10 punti proposto da Andreoli per aiutare a crescere i figli. Di seguito vengono riportati solo alcuni stralci (si è mantenuta la numerazione):

1. Occorre volere bene ai figli, la famiglia deve essere il luogo dei sentimenti e degli affetti, a differenza della scuola del lavoro. Sembra banale, non lo è. Un genitore dovrebbe sentire il desiderio di passare del tempo con il figlio adolescente. Spesso chiedo ai manager: avete telefonato ai vostri ragazzi? Loro replicano, sorpresi: per chiedere cosa? Eppure basterebbe dire: ho voglia di vederti, di stare con te.

2. I genitori non devono essere perfetti, ma coerenti; solo così diventano un riferimento. Se un quindicenne torna alle tre di notte non può passarla liscia una volta e un’altra no. Per gli adolescenti il mondo è imprevedibile; mamma e papà non possono esserlo. (…)

5. L’autorità è importante, abbiamo sbagliato a calpestarla: significa avere idee precise, intervenire e imporsi, rimanendo però su un piano affettivo. Non è il comando secco, da caserma. Un figlio deve sentirsi dire: non posso accettare quello che hai fatto ma sono qui, ti voglio e ti vorrò sempre bene. Tutto si svolge all’interno di una relazione di sentimenti.

6. Tornate a insegnare le buone maniere: salutare, non dare del tu a tutti, essere in ordine, stare a tavola con tv e cellulari spenti. Ovviamente i genitori dovrebbero dare per primi il buon esempio. Il rispetto per gli altri è importante.

8. A casa a scuola si parla sempre di denaro e bellezza: non se ne può più. Il mondo va scoperto; non coperto d’oro. I soldi vanno tenuti in tasca, senza riempire la testa. Non se ne può più neanche dell’empirismo: oggi prima si fa, poi si pensa. Non si riesca a passare facilmente da un’esperienza all’altra con un ritmo così frenetico. In questo modo non si educa, si fa solo una gran confusione.

Fonte: “Io Donna” dell’11 gennaio 2014

Centralità della famiglia, quindi, come luogo dei sentimenti e degli affetti; genitori come esempio e modello. Progettualità per il futuro che nasce in famiglia; attenzione all’empirismo, prima si pensa e poi si fa e non il contrario.  Andreoli mette in evidenza una serie di punti centrali dell’educazione e quindi della famiglia ma non solo. Infatti il 10 punto del decalogo è rivolto alla scuola che dovrebbe essere – continua Andreoli – almeno in teoria il luogo dell’esempio, dell’onestà e della preparazione. E’ importante che l’insegnante si interessi al gruppo classe e non solo ai singoli. E’ fondamentale, infatti, che i ragazzi imparino a interagire tra pari mentre spesso viene favorita la competizione.

Scritto da: Letizia Mannino

Un codice di autoregolamentazione contro il cyberbullismo

E’ stato approvata  l’8 gennaio, durante la riunione tecnica dedicata a combattere il cyberbullismo, la prima bozza del Codice di Autoregolamentazione per la prevenzione e il contrasto del fenomeno. Il codice sarà in consultazione pubblica per 45 giorni sul sito www.sviluppoeconomico.gov.it  e in questo periodo è possibile inviare osservazioni e suggerimenti all’indirizzo mail che si trova indicato sul sito.

Al tavolo, presieduto dal Vice Ministro dello Sviluppo economico Antonio Catricalà, partecipano rappresentanti delle Istituzioni (Mise, Agcom, Polizia postale e delle comunicazioni, Direzione Centrale della Polizia Criminale, Autorità per la privacy, Garante per l’infanzia e Comitato media e minori), delle Associazioni (Confindustria digitale, Assoprovider ecc.) e degli operatori (Google, Microsoft ecc.). (fonte: www.sviluppoeconomico.gov.it).

Bozza del Codice di autoregolamentazione per la prevenzione e il contrasto del cyberbullismo (pdf, 100 kb) (da www.sviluppoeconomico.gov.it)

I principali quotidiani hanno parlato del codice e su Italia Oggi si legge:

“D’altra parte una grossa mano se la deve dare l’interessato, che deve abituarsi alla massima prudenza in rete. Il codice incentiva campagne di formazione e informazione sull’uso consapevole della rete: insomma che almeno i cyberbulli siano messi sul chi va là e si rendano conto di poter essere scoperti e che le vittime possano conoscere le possibilità di difesa”. (Italia Oggi del 9 gennaio 2014)

Scritto da: Letizia Mannino

La paura di soffrire… fa soffrire

Uno studio condotto dall’Università Bicocca di Milano in collaborazione con la Purdue University dell’Indiana mette in evidenza che la paura di soffrire, sia che si tratti di dolore fisico che psicologico,  può amplificare la percezione del dolore.

I ricercatori hanno condotto alcuni esperimenti coinvolgendo 842 studenti dell’Università americana. Inizialmente è stato chiesto ai partecipanti di autovalutare le proprie reazioni emotive nei confronti di diverse situazioni dolorose e successivamente sono stati coinvolti in alcune prove; una di queste, ad esempio, si chiama “Cold Pressor Task” e consiste nell’immergere la mano nell’acqua a una temperatura che può andare da 5 gradi centigradi a temperatura ambiente (25 gradi centigradi circa). La prova ha evidenziato come coloro che avevano manifestato una maggiore paura nei confronti del dolore fisico hanno sofferto di più quando gli è stato chiesto di tenere la mano nell’acqua fredda.

Lo studio ha mostrato anche una correlazione fra paura del dolore fico ed emotivo; ad esempio chi ha paura di soffrire a causa di un’iniezione potrà avere anche alti livelli di paura rispetto a un possibile tradimento.

Uno dei ricercatori dell’Università milanese, Paola Riva, spiega sulla rivista Pain come la paura costituisca una risposta adattiva, è una sorta di campanello di allarme funzionale ad agire in modo da salvaguardare la propria incolumità fisica o emotiva.

«La paura del dolore che ritengo di provare a causa del contatto della mano su una fiamma accesa fa sì, per esempio, che io eviti di mettere di proposito la mano sul fuoco. E allo stesso modo, la paura del dolore che presumo possa provocarmi l’isolamento sociale mi porta a rispettare quelle norme sociali, la cui violazione potrebbe farmi allontanare dal mio gruppo di riferimento. Tuttavia, livelli di paura moltoalti possono risultare invalidanti in quanto, intensificando a dismisura la percezione del dolore, possono travolgerci in una spirale negativa, di paura e isolamento, che finisce per perpetuare l’effettivo dolore. Ovvero, chi ha molta paura di soffrire cerca di evitare di incappare in quelle situazioni che gli provocano dolore». Fonte: Corriere della Sera del 20 dicembre 2013

Riva precisa che questi risultati sono un primo step per ulteriori ricerche volte ad indagare l’influenza della paura di soffrire sulla percezione dell’intensità del dolore.

Fonte: Corriere della Sera – neuroscienze, del 20 dicembre 2013

http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/13_dicembre_20/paura-soffrire-ci-rende-piu-sensibili-dolore-fisico-psicologico-b048a632-695d-11e3-95c3-b5f040bb6318.shtml

Talvolta si è portati a pensare che il dolore e la sofferenza siano in qualche modo “oggettivi” ma in effetti in una certa misura sono legati invece al modo specifico e individuale di ciascuno di attribuire significato ad una esperienza. Per riprendere degli esempi citati nell’articolo, un’iniezione può essere vissuta come un ulteriore dolore fisico o come un’opportunità per curarsi e guarire;  analogamente non tutti reagiscono allo stesso modo alla fine di una storia affettiva.  L’articolo inoltre, mette in evidenza come in alcuni casi un’eccessiva paura della sofferenza possa far sì che, nel tentativo di evitare il dolore, si finisca proprio per alimentarlo.

Nella vignetta, ad esempio, l’ansia relativa all’incontro con la ragazzina dai capelli rossi porta Charlie Brown a nascondersi! In questo modo evita l’incontro temuto ma… anche desiderato, finendo presumibilmente per soffrire comunque!

Scritto da: Letizia Mannino

Giocando si impara a vivere

Peter Gray, picologo e ricercatore del Boston College, in un articolo pubblicato su “Internazionale” del 20-26 dicembre 2013 mette in evidenza come a partire dagli anni sessanta per bambini e adolescenti è gradualmente aumentato il tempo dedicato allo studio ma si è andato riducendo il tempo in cui possono giocare in modo autonomo; infatti gli sport organizzati dagli adulti hanno cominciato a sostituire quelli improvvisati e le attività extrascolastiche hanno preso il posto degli hobby.

Nello stesso periodo, continua Gray, i disturbi mentali infantili sono aumentati e non perché si sta prendendo atto di disturbi che esistevano già da prima. Infatti, negli Stati Uniti, i questionari utilizzati per misurare i livelli d’ansia e depressione dei ragazzi in età scolare sono gli stessi degli anni cinquanta.

“Le minori opportunità di gioco sono state accompagnate da una diminuzione dell’empatia e da un aumento del narcisismo, due fenomeni riscontrati dalla fine degli anni settanta sottoponendo a questionari standard campioni normativi di studenti universitari. Per empatia s’intende la capacità e la tendenza a vedere le cose dal punto di vista di un’altra persona e a capire quello che prova; per narcisismo un’eccessiva concezione di sé accompagnata dal disinteresse per gli altri e dall’incapacità di stabilire rapporti emotivi. Il calo dell’empatia e l’aumento del narcisimo è proprio quello che ci si aspetta di riscontrare in bambini con poche opportunità di giocare tra loro”…

Gray ha cercato di capire il significato del gioco nell’evoluzione e ha studiato la vita dei bambini nelle culture dei popoli di cacciatori raccoglitori partendo dal lavoro di un filosofo naturalista Karl Groos secondo il quale il gioco è nato per selezione naturale come mezzo per esercitare le abilità necessarie a sopravvivere.

Inoltre, sempre per studiare il ruolo del gioco, Gray ha condotto una piccola indagine su dieci antropologi che avevano studiato queste culture e  che avevano osservato come i bambini fin dall’età di 4 anni erano liberi di giocare quanto volevano. Ma il gioco aveva la funzione di permettere l’acquisizione delle competenze culturalmente rilevanti a diventare adulti capaci e preparati; come cacciare, cercare radici commestibili, arrampicarsi sugli alberi …

Gray cita un’altra ricerca che ha condotto su una scuola alternativa, la Sudbury valley school, che si trova nel Massachussetts. In questa scuola gli studenti, dai 4 ai 19 anni, sono liberi di scegliere le attività da svolgere a condizione che rispettino tutte le regole dell’istituto; regole che però non riguardano l’apprendimento ma il mantenimento dell’ordine.

Questa scuola avrebbe in comune con le tribù dei cacciatori raccoglitori la caratteristica di creare le condizioni per sfruttare al massimo la capacità dei bambini di auto educarsi.

“Entrambe offrono ampie opportunità di giocare con gli strumenti della cultura e di entrare in contatto con una varietà di adulti attenti e preparati, che li aiutano e non li giudicano. E permettono ai bambini di mescolarsi con gli adolescenti (giocando con persone di età diverse s’impara di più che giocando con persone della stessa età). Infine, in tutti e due i casi, i bambini sono inseriti in una comunità stabile regolata da principi morali, quindi ne acquisiscono i valori e imparano a sentirsi responsabili per gli altri, oltre che per se stessi.”

Nell’articolo viene messo in evidenza come in molti paesi i bambini studiano sempre di più e sono molto bravi nel superare i test ma non sono creativi e non hanno voglia di imparare.

A questo proposito Kyung-hee Kim, una psicologa dell’educazione del College of William and Mary in Virginia ha osservato che i punteggi a test di creatività a cui sono stati sottoposti campioni di studenti statunitensi dall’asilo all’ultima classe delle superiori hanno cominciato ad abbassarsi dal 1984 e da allora continuano a scendere.

Kyung-hee Kim in un articolo del 2011 intitolato “La crisi della creatività”, ha scritto in merito a questi dati che “i ragazzi esternano meno le loro emozioni, sono meno energici, meno loquaci e in grado di esprimersi oralmente, meno spiritosi, meno fantasiosi, meno anticonformisti, meno vivaci e appassionati, meno intuitivi, meno capaci di collegare tra loro cose apparentemente non pertinenti, di sintetizzare e di vedere le cose da un’angolatura diversa”.

“Secondo questa ricerca c’è stato un calo di tutti gli aspetti della creatività, ma soprattutto di un parametro chiamato “elaborazione creativa” che valuta la capacità di prendere una particolare idea e di svilupparla in modo nuovo e interessante”.

Gray giustamente evidenzia come la creatività non può essere insegnata ma si può solo lasciare che fiorisca.

Sempre nel gioco si apprendono le competenze sociali; ad esempio nel gioco di gruppo bisogna farsi valere ma senza essere prepotenti e inoltre si imparano a gestire emozioni come la rabbia e la paura.

Fonte: “Internazionale” del 20-26 dicembre 2013

L’articolo mette in evidenza alcuni aspetti importanti come la diminuzione della capacità di provare empatia e l’aumento del narcisimo e come queste manifestazioni possono essere in rapporto con il diffondersi di un maggiore impegno nello studio o in attività organizzate a scapito di attività di socializzazione come il gioco di gruppo. Avendo presente che i fenomeni possono avere incidenze diverse in relazione alle culture e ai paesi considerati, sarebbe importante valutare il dato sulla progressiva riduzione della creatività e in particolare della “elaborazione creativa”.  Infatti la capacità di vedere le cose da un’angolatura diversa non è fondamentale solo per le grandi invenzioni e scoperte ma anche nella vita di tutti giorni. Un piccolo cambiamento di prospettiva non è necessario ogni qual volta si debba risolvere un problema, anche relazionale?

Scritto da: Letizia Mannino

Popolazione e famiglia, dati Istat

Percentuali di famiglie unipersonali per regione. Censimenti 2001 – 2011

Fonte: www.istat.it

A dicembre sono stati diffusi dall’Istat i dati relativi al 15° censimento generale della popolazione che forniscono un quadro aggiornato della caratteristiche della popolazione e delle famiglie. Dal 2001 al 2011 il numero dei separati e divorziati è quasi raddoppiato passando da 1.530.543 a 2.658.943; un separato su due ha un’età fra i 35 e i 54 anni.

Il numero di famiglie è aumentato ma tendono ad essere sempre meno i componenti. Ad esempio nel 1971 una famiglia era mediamente composta da 3,3 persone mentre nel 2011 da 2,4.

Sono in aumento le famiglie unipersonali (vedi tabella) a causa dell’invecchiamento della popolazione e dei mutamenti demografici e sociali..

Più di sette famiglie su dieci, il 72,1% sono proprietarie dell’abitazione in cui vivono, mentre il 18% ha una’abitazione in affitto e il restante 9,9% usufruisce dell’abitazione a titolo gratuito o a titolo di prestazione di servizio.

Sono in aumento gli stranieri e provengono da 196 paesi ma oltre la metà proviene da soli 5 paesi e sono in ordine: rumeni, albanesi, marocchini, cinesi e ucraini.

Dai dati Istat emerge un aumento della solitudine (famiglie unipersonali), una crescita della fragilità della famiglia (aumento separazioni e divorzi) e un paese sempre più variegato dal punto di vista delle nazionalità presenti.

Scritto da: Letizia Mannino

La forza… della persuasione

Fonte: Settimana Enigmistica

 

Scritto da: Letizia Mannino